Focus - L'Illuminismo
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È l’opinione che si ha su un individuo o su un gruppo di persone prima ancora di conoscerli. Tale idea è talmente forte che impedisce un giudizio oggettivo su quella persona o su quel gruppo.
È un romanzo in cui la vicenda prende corpo attraverso le lettere (epistole) che due o più personaggi si scambiano tra loro.
In Europa, il problema della tolleranza era divenuto estremamente attuale già nel corso del Seicento (quando ormai si era persa l’unità religiosa a seguito dalla Riforma), al punto da divenire oggetto della riflessione di alcuni pensatori come Baruch Spinoza (1632-1677) e John Locke (1632-1704).
Scriveva Spinoza: «Ad Amsterdam convivono in perfetta concordia uomini di tutte le nazioni e di tutte le religioni», affermando in tal modo che persone con religione diversa potevano tranquillamente convivere all’interno di un’unica società, e che ciò in Olanda aveva favorito – peraltro – l’espansione dei traffici e dei commerci.
Locke, andando oltre, affermava che la libertà religiosa era fondamentale per una pacifica convivenza all’interno della società e pose per la prima volta il problema della divisione dei poteri fra Stato e Chiesa, come garanzia di tolleranza e pace sociale.
Egli sosteneva infatti che mentre il governo di uno Stato ha il compito di promuovere gli interessi relativi alla vita sociale, alla libertà e al benessere generale, la Chiesa deve promuovere la salvezza dell’anima di coloro che spontaneamente professano la religione cristiana, dal momento che la fede è una scelta interiore e personale.
Né lo Stato né la Chiesa, dunque, sono autorizzati a usare la forza per imporre credenze e opinioni che riguardano esclusivamente la coscienza individuale.
Alla fine del Seicento, grazie allo sviluppo del sapere scientifico, era aumentata negli uomini di cultura la fiducia nelle capacità dell’uomo di comprendere la realtà attraverso l’uso della ragione, applicata a tutti i campi del sapere. Inoltre, in seguito anche a una visione sempre più laica della società, ossia svincolata dai dettami della religione, essi sentirono la necessità di cercare e proporre nuove vie affinché gli uomini potessero vivere in armonia, abbattendo i pregiudizi e le prepotenze.
Il movimento culturale che ne nacque prese il nome di Illuminismo o “età dei lumi” (dal francese siècle des lumières, “secolo delle luci”).
Per gli intellettuali del tempo il termine stava a indicare la fine di un’epoca di oscurità e ignoranza e il passaggio a un’età segnata dal progresso, sotto la guida dei “lumi” della ragione.
L’Illuminismo, che si sviluppò nel corso del Settecento, ebbe il suo centro principale in Francia, a Parigi: qui numerosi intellettuali si posero, appunto, l’obiettivo di diffondere e promuovere l’uso della ragione in ogni ambito della vita sociale, politica e culturale.
Gli intellettuali illuministi, passati alla storia con il nome di philosophes, affermavano questo principio fondamentale: in ogni uomo vi è il lume della ragione, al di là delle differenze di religione, classe sociale, popolo.
Dunque, se la ragione è una facoltà posseduta da tutti gli uomini, essi devono avere gli stessi diritti e le stesse libertà di esercitarli, qualunque sia la loro posizione sociale, economica o religiosa.
Per questo motivo i philosophes condussero anche una tenace campagna contro il fanatismo religioso e l’intolleranza.
La tolleranza era infatti considerata l’elemento fondamentale della vita civile, in quanto costituiva una garanzia della libertà di pensiero e di pace sociale. E garantendo ciò si sarebbe promossa la lealtà dei cittadini, poiché si sarebbe evitato che qualcuno si sottomettesse di malavoglia alla religione dello Stato, nutrendo così rancore e minando la solidità della società.
L’Illuminismo ebbe come principale centro di irradiazione la Francia: tra i filosofi di lingua francese più autorevoli, ricordiamo Montesquieu, Rousseau, Voltaire, Diderot e d’Alembert.
Anche negli altri Paesi, però, la riflessione illuministica si sviluppò ampiamente grazie a pensatori di assoluto rilievo: tra di essi non possiamo dimenticare gli italiani Antonio Genovesi e Cesare Beccaria, lo scozzese Adam Smith e il filosofo tedesco Immanuel Kant (1724-1804).
Quest’ultimo, in particolare, sottolineò con forza e determinazione le possibilità di conoscere la realtà e l’uomo attraverso l’uso della ragione, una volta che essa non sia più limitata da princìpi religiosi o politici, né costretta entro confini stabiliti da altri, ma possa compiere la ricerca della verità in modo libero e indipendente.
Partendo dal presupposto che la facoltà di pensare in modo razionale accomuna tutti gli uomini, molti illuministi si ritennero cittadini del mondo e viaggiarono alla scoperta di altri Paesi e di altre culture, aperti a conoscere il nuovo. Alcune loro opere ne sono testimonianza.
In particolare riscosse un grandissimo successo il romanzo epistolare Lettere persiane di Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu (1689-1755), pubblicato anonimo nel 1721, per evitare ritorsioni da parte delle autorità. Attraverso gli occhi di due Persiani in visita in Occidente, venivano messi in luce da una parte le assurdità e le irragionevolezze degli usi e delle istituzioni della società francese cattolica e assolutista, dall’altra i drammatici effetti del dispotismo (ossia assolutismo) orientale, basato sulla paura sia del despota di perdere il potere sia dei sudditi di essere puniti. La conclusione dell’opera era dunque la necessità di imparare a utilizzare bene la ragione per realizzare società migliori.
L’opera più importante di Montesquieu fu però Lo spirito delle leggi. In essa egli descrisse e analizzò le diverse forme di governo – repubblica, monarchia, dispotismo – allo scopo di trovare quali condizioni portassero a trasformare un regime politico in un sistema tirannico.
Innanzitutto egli esaminò i tre poteri che vi sono in ogni Stato: il potere di scrivere e approvare le leggi (legislativo), quello di governare (esecutivo) e quello di amministrare la giustizia (giudiziario).
In particolare, mentre nella repubblica il popolo è al tempo stesso monarca e suddito, poiché detiene sia il potere di fare le leggi sia quello di metterle in pratica, all’opposto nel dispotismo una singola persona accentra in sé tutti i poteri, danneggiando la libertà dei cittadini. Montesquieu, grande ammiratore della monarchia costituzionale inglese nella quale la separazione dei poteri garantiva un alto livello di libertà, sperava che in Francia si realizzasse qualcosa di analogo.
La sua tesi fondamentale era che poteva dirsi libero solo quel Paese in cui i tre poteri fondamentali non fossero nelle stesse mani, fossero esse del popolo o del despota, perché ciò avrebbe annullato la libertà.
Per evitare tale rischio era necessario che i tre poteri fossero affidati a organi diversi (il potere legislativo al Parlamento – l’assemblea che rappresenta il popolo –, quello esecutivo al governo e quello giudiziario alla magistratura), in modo che ciascuno di essi potesse impedire all’altro di andare oltre i propri limiti, degenerando in tirannia.
Di parere diverso era il ginevrino Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) che, dopo aver mosso una critica radicale ai regimi costituiti, affermò con forza l’esigenza di un profondo mutamento sociale e politico.
A differenza della maggior parte degli illuministi, che vedevano nella civiltà una tappa del progresso dell’uomo, per Rousseau la storia della civiltà metteva in luce il fatto che gli uomini si erano allontanati dalla felicità che aveva caratterizzato la loro condizione originaria, in cui ciascuno condivideva tutto con gli altri.
La società attuale era ingiusta e infelice, poiché in essa la proprietà privata, basata sull’accumulo di ricchezza in poche mani, aveva portato alla disuguaglianza tra gli uomini.
Per garantire l’uguaglianza era necessario un nuovo contratto sociale che avrebbe dovuto eliminare la proprietà privata e stabilire la sovranità popolare, fondata sulla democrazia: è questa l’unica forma di governo legittima, nella quale la libertà del singolo individuo coincide con quella della comunità.
Così come Montesquieu, anche François-Marie Arouet, più noto con lo pseudonimo di Voltaire (1694-1778), fu un grande ammiratore dell’Inghilterra. Grazie ai suoi viaggi, infatti, egli vide che in quel Paese si praticavano attivamente la tolleranza religiosa e la libertà di espressione, sia in politica sia in ambito scientifico. Scrisse allora, sul modello delle Lettere persiane di Montesquieu, le Lettere inglesi, una serie di saggi basati sulla propria esperienza di vita in Inghilterra, in cui, evidenziando i meriti di quel Paese, demoliva la società francese sottoposta a tirannia e condannava l’oziosa aristocrazia e il clero.
Voltaire riteneva, in particolare, che il fanatismo religioso fosse causato soprattutto dalla presenza della Chiesa come istituzione. Egli non negava l’esistenza di Dio, ma sosteneva che non vi fosse alcuna necessità di un’istituzione che ponesse vincoli e limiti, che sfociavano nell’intolleranza verso chi aveva differenti costumi e usanze.
Voltaire riteneva che Dio non volesse intervenire necessariamente nel mondo umano: l’Essere Supremo aveva solo avviato la macchina dell’universo, per poi lasciare che l’uomo fosse libero, ovvero avesse il potere di agire autonomamente.
Tuttavia, non avendo fiducia nelle capacità del popolo di governarsi e non fidandosi della nobiltà, che viveva solo su privilegi acquisiti nel tempo, Voltaire sostenne, come forma di governo, la monarchia assoluta illuminata dalla ragione (il cosiddetto dispotismo illuminato). In questo regime politico il sovrano avrebbe governato con saggezza, secondo i princìpi della ragione, e sarebbe stato il miglior garante dei diritti e delle libertà di tutto il popolo.
In questo periodo oltre alla politica anche l’economia fu affrontata in modo razionale. Le basi della moderna economia politica furono poste da uno scozzese: Adam Smith (1723-1790).
Avendo come riferimento la società inglese del tempo, fortemente dinamica e produttiva, Smith riteneva che la vera fonte di ricchezza di un Paese fosse determinata dal lavoro impiegato per produrre le merci: a esso, infatti, era connesso il valore di scambio, ossia il prezzo, delle merci stesse. Egli affermava inoltre che sia gli interessi individuali sia quelli collettivi fossero maggiormente tutelati in un libero mercato, ossia dove vi era un libero scambio delle merci, piuttosto che in un mercato controllato dallo Stato.
Anzi, il libero mercato avrebbe garantito la crescita economica.
Secondo Smith infatti lo Stato non aveva il compito di regolamentare le attività produttive e commerciali, che invece dovevano essere gestite dai privati.
Il suo ottimismo era determinato dalla convinzione che nell’economia agisse una mano invisibile che governava per il meglio, secondo una sorta di legge naturale, i rapporti tra imprenditori, mercanti, artigiani, contadini.
A suo avviso, l’accumulo individuale di beni e di ricchezze non era in contrasto con il progressivo arricchimento dello Stato, al contrario lo favoriva, così come la divisione del lavoro consentiva di aumentare e migliorare la produzione e quindi di aumentare gli scambi commerciali, e la libera concorrenza incoraggiava il progresso e lo sviluppo.
Un altro campo a cui gli illuministi si dedicarono fu il diritto, ossia le norme che regolano la vita dei membri di uno Stato, e insieme a esso si occuparono della giustizia.
Fino al Settecento per valutare un reato, la giustizia non si fondava su strumenti obiettivi e procedimenti determinati, dunque vi erano spesso processi sommari con condanne soggettive.
Molti giudici non possedevano la necessaria competenza e la doverosa moralità per decidere, quindi non vi era garanzia di giustizia e di imparzialità per il cittadino.
Gli illuministi, pertanto, si batterono anche perché vi fosse una legge uguale per tutti e valida su tutto il territorio dello Stato e perché a un reato facesse sempre riscontro una determinata pena: i giudici non potessero quindi stabilire a loro discrezione la condanna da prescrivere.
Le riflessioni sulla giustizia arrivarono anche in Italia, grazie ai frequenti contatti con la vicina Francia, e vennero assorbite ed elaborate da parecchi intellettuali.
In particolare, il milanese Cesare Beccaria (1738-1794) con il suo trattato Dei delitti e delle pene diede un contributo originale al dibattito europeo. Beccaria muoveva dalla constatazione che nei regimi assolutistici non erano tutelate né la libertà né la sicurezza dei cittadini.
Anzi, il cattivo funzionamento dei tribunali e delle carceri, la consuetudine alla tortura e alla pena di morte, l’arbitrarietà del potere dei magistrati, provavano la mancanza di qualsiasi certezza del diritto.
Egli dunque propose l’istituzione di pene certe e proporzionate al reato commesso, sottolineando il valore rieducativo che esse dovevano avere.
Secondo Beccaria il vero freno alla criminalità non era la crudeltà delle pene, ma la sicurezza che il colpevole sarebbe stato punito.
Inoltre condannò la tortura, inutile ai fini investigativi in quanto spesso dava luogo a false confessioni.
Per primo in Europa, chiese esplicitamente l’abolizione della pena di morte e la sua sostituzione con una lunga pena detentiva basata sul lavoro.
Egli affermava: «Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l’uomo cessi di essere persona e diventi cosa».